La digital strategy deve fare gioco di squadra con la people strategy e la “coltura” dei talenti. Il binomio persone + tecnologie è la carta vincente, purché si sappia pianificare e organizzare.
I talenti costituiscono un asset e una carta vincente fondamentale nell’ambito della digital strategy. Nuove tecnologie, nuovi strumenti e nuovi approcci al cliente – per quanto efficaci perché basati su una più ampia varietà di informazioni, sul profiling e su proposte di prodotti e servizi personalizzati – non possono sortire il massimo dei risultati se non sono congruenti e sinergici con i contesti di interazione tra azienda e consumatori (fisici e digitali) e se non sono coerentemente supportati dal personale aziendale di sede e di field.
Perciò è importante selezionare e valutare accuratamente le risorse umane, coltivandone le potenzialità affinché, in linea con le strategie aziendali e nell’ambito di un preciso framework, siano in grado di crescere e di impiegare al meglio le loro competenze anche nel digitale, con lo scopo di migliorare le loro performance e apportare un contributo fondamentale ai risultati dell’azienda.
Sentiamo che cosa ne pensa Mario Perego, Human Resources Director di Heineken Italia.
Perché oggi assume una nuova rilevanza il focus sulle persone?
«Affrontare il tema del digitale dal punto di vista delle risorse umane è estremamente importante, soprattutto in quanto il digitale ha un forte impatto sulle persone e, nel contempo, ne è a sua volta influenzato e supportato. Nell’ambito delle risorse umane, oggi si osservano dei trend di cambiamento molto significativi (che dal punto di vista organizzativo le aziende devono naturalmente presidiare), ma alcuni princìpi fondamentali non cambiano. Bisogna ricordare che abbiamo sempre a che fare con delle persone, che vanno considerate come tali anche se devono modificare il loro modo di lavorare e le loro performance per far fronte ai cambiamenti in atto nel contesto in cui operano e per conseguire determinati obiettivi».
Come vanno gestite oggi le risorse umane?
«Il talent management si fonda su alcuni princìpi fondamentali, che non sono sostanzialmente cambiati con l’avvento del digitale. Innanzitutto, non si tratta di una scienza; è solo buon senso, organizzato e disciplinato, per eseguire determinate azioni in linea con la strategia di business. In mancanza di questi attributi, il talent management non funziona. Il suo scopo è quello di ottenere il massimo dalle persone e oggi, per conseguire quest’obiettivo, bisogna coinvolgerle (sia i collaboratori, sia i clienti/consumatori) e far vivere loro delle esperienze».
Che cos’è il talento, oggi?
«Il talento è dato da una combinazione di performance e potenziale: due aspetti allineati che progrediscono, si alimentano e si arricchiscono a vicenda, viaggiando a velocità sempre più elevate. Oggi il tempo medio di trasformazione del potenziale in performance si è accorciato notevolmente, tant’è che le aziende e le organizzazioni, al fine di misurare e valutare il potenziale e la crescita possibile dei propri collaboratori, si basano molto sulle performance. Ovviamente il fattore organizzativo è ancora importante, poiché un’organizzazione è fatta sempre di persone oltre che di tecnologie; al suo interno persone e tecnologie si incontrano, in una combinazione che si rivela sinergica nel produrre azioni finalizzate a determinati risultati e obiettivi aziendali.
Rispetto al passato qualcosa però è cambiato: parlo del peso delle tecnologie rispetto a quello delle persone e della complessità e velocità di evoluzione delle tecnologie, che impongono alle persone di adeguarsi tempestivamente per imparare a governarle e a gestirle. Questo scenario – e la sua evoluzione – va osservato da due prospettive: da un lato, quella del contesto (l’azienda) e, dall’altro, quella delle persone».
Qual è il ruolo dell’azienda in questo senso?
«Il contesto (ossia l’azienda) è fondamentale perché “fa” il potenziale o, quanto meno, lo rende esplicito. Lo dimostra il fatto che alcune organizzazioni si dimostrano più capaci di produrre potenziale e talento non perché dispongono di persone migliori, ma perché sanno trarre il meglio dalle persone che hanno. Questo è un processo che lo sviluppo delle tecnologie contribuirà a enfatizzare, non perché esse si sostituiranno alle persone, ma perché contribuiranno a ricavarne il massimo possibile e a migliorarne le performance.
In un momento in cui la velocità di formulazione e di rielaborazione delle strategie è giunta ad altissimi livelli, occorre anche creare la giusta cultura di base e un contesto simbolico, in grado di spingere e indirizzare miratamente i collaboratori; anche questo è un fattore determinante nel fare la differenza. Governare la cultura è fondamentale per governare il talento e le performance, rendendo i collaboratori consapevoli della direzione da prendere, soprattutto oggi che le tecnologie impongono tempi di azione e di reazione superiori.
Anche per “colpa” dello sviluppo tecnologico, oggi in molte organizzazioni vige l’imperativo “Don’t get ready, get started”, nel senso che l’importante è partire: il tiro si aggiusta man mano in corso d’opera. In funzione di ciò, è essenziale che tutti abbiano ben chiaro il senso della direzione e che convergano e si dirigano dalla stessa parte: tutti devono muoversi insieme, come collettivo e sulla base della stessa cultura, verso la medesima destinazione, per amministrare meglio e più facilmente il cambiamento.
L’innovazione influisce su molti ambiti all’interno delle nostre aziende in quanto va a intervenire sui processi, cioè sul modo in cui facciamo le cose. In questo contesto, il ruolo dei manager, intesi come capi che gestiscono le persone, è estremamente importante. Se prima si gestivano persone che lavoravano nello stesso posto, nella stessa fascia oraria e con i medesimi obiettivi, ora ci si trova a gestire persone che lavorano in posti diversi, in orari diversi – anche inusuali – e sovente con obiettivi contrastanti. Perciò il manager, con il senso della direzione bene in testa, deve diventare un facilitatore e un integratore; in un certo senso assomiglia a un asset manager, poiché gestisce il capitale umano allocando le risorse ai diversi progetti, sviluppando le risorse – i suoi “cespiti” – e risolvendone i conflitti.
Se questo è il trend, alimentato ulteriormente dal digitale, è facile che si debbano mettere in discussione e rivedere moltissime cose a livello di organizzazione e di processi. Per esempio, ha ancora un senso fare performance management una volta all’anno, in maniera formale, con persone che sono abituate a guardare video lunghi non più di tre minuti e hanno bisogno di un feedback almeno ogni settimana? E ha senso prospettare ai candidati più giovani lunghi percorsi di carriera quando sono inclini a cambiare azienda frequentemente e sono interessati sempre di più ad altri aspetti, quali il welfare, lo smart working e la possibilità di disporre di luoghi, orari e giorni flessibili di lavoro?».
Qual è la prospettiva delle persone?
«Se vediamo le cose dal punto di vista delle persone, occorre sottolineare che oggi l’età conta sempre di meno. Più della gerarchia contano infatti le competenze specifiche necessarie allo svolgimento dei diversi compiti e al conseguimento dei risultati; questo fa sì che, in certe situazioni, comandi più un ventenne che un cinquantenne.
Ciononostante, in ragione dell’aumento dell’età della popolazione lavorativa, dei maggiori tempi di permanenza in azienda ma anche delle scelte aziendali, nella valutazione del potenziale si tende comunque a considerare con attenzione i senior, in termini sia di investimenti formativi sia di percorsi di carriera. Questa tendenza è avvalorata dal fatto che, tra i gruppi di lavoro agili, quelli che funzionano sono caratterizzati da un team misto di senior e giovani, purché con le giuste capabilities. In quest’ottica, è allora importante che performance e potenziale si avvicinino il più possibile.
Un altro aspetto rilevante da sottolineare è il fatto che servono persone, non manager né tecnocrati; servono conoscenze e competenze, unite alla capacità di utilizzare tali risorse in funzione dei risultati con determinazione, energia e resilienza; purtroppo, le persone corrispondenti a questa descrizione non sono molte. In un simile contesto, l’imprenditorialità ritorna importante. Abbiamo infatti bisogno di founder mentality, poiché se le persone sentono l’azienda come loro abbiamo un maggiore ritorno.
Noi, da multinazionale relativamente centralizzata, sposiamo il concetto “Freedom within a framework” – in base al quale le persone devono avere libertà di muoversi – a tal punto che il nostro problema è non tanto definire una cornice entro cui dare dei limiti ai nostri collaboratori, quanto illustrarla accuratamente per fare in modo che essi conoscano e utilizzino al meglio tutto lo spazio che hanno a disposizione al suo interno. Un altro concetto importante è “Fail cheap, learn fast”. Sbagliare è consentito, anche perché dagli errori si impara, ma bisogna fare in modo di creare una psycological safety affinché gli errori costino il meno possibile e le persone, il più in fretta possibile, imparino da essi e vi pongano efficacemente rimedio».
Quali cambiamenti ha portato lo sviluppo delle nuove tecnologie?
«Le tecnologie hanno enfatizzato molti di questi concetti. I tempi si sono accorciati tantissimo, gli elementi di riferimento formali e i codici di comportamento indicati dalle istituzioni sono sempre meno. Per esempio, manutenere una job description ha dei costi importanti, perché costa concepirle e, una volta completate, spesso si rivelano superate perché il lavoro è cambiato. Il rischio è quindi quello di fornire all’organizzazione delle informazioni sbagliate, causando più danni che altro. In questo scenario, anche tenendo conto delle tendenze in atto, saremo costretti a improvvisare di più, il che costituisce non solo una bella sfida ma anche un’opportunità. Ma, ricordiamolo, non c’è miglior improvvisatore di chi è ben preparato».